Un interessante articolo pubblicato da un ragazzo di una scuola superiore di agraria che prende in esame gli orti scolastici e la loro funzione.
Orti didattici, orti scolastici, orti per l’infanzia, orti di pace : nomi diversi per indicare uno stesso concetto, tornato di moda dopo anni di oblio. La didattica non può e non deve aver luogo esclusivamente nelle aule, chiuse, immobili e isolate dal mondo in divenire.
L’esperienza degli orti didattici in Lombardia ha origini lontane : negli anni ’20 nascevano, a Milano, la Scuola Speciale all’aperto nel Parco Trotter e la Rinnovata Pizzigoni alla Bovisa, precedute, all’inizio del secolo, dalle scuole all’aperto attivate alla Bicocca degli Arcimboldi e a Niguarda dall’associazione Per la Scuola.
Nell’ultimo decennio questo tipo di esperienza è stata recuperata come modalità di integrazione per bambini diversamente abili: il giardino, l’orto, lo spazio aperto dovevano avere la funzione di luoghi – facilitatori, dove apprendere, fare attività ricreative, star bene con se stessi e con gli altri.
Con il passare del tempo, l’evolversi delle teorie pedagogiche e la crescita della sensibilità verde comune, è divenuto sempre più evidente come questi spazi aperti fossero imprescindibili spazi di crescita della personalità dell’individuo – bambino, oltre che spazi di benessere psico – fisico e naturale, proseguimento / completamento delle attività didattiche svolte nelle aule (come suggerito da specifiche indicazioni legislative).
L’stituzionalizzazione di questo percorso è stata resa evidente dall’intervento di associazioni ed enti, pubblici e privati, che hanno dato visibilità, parametri e (a volte) finanziamenti agli istituti scolastici che si sono impegnati nella creazione di orti e percorsi verdi : ricordiamo ‘Cento orti per cento scuole’, all’interno di Ortocircuito, a cura della Regione Lombardia, oppure ‘Orti di pace’, ‘Metrobosco’, o programmi annuali di attività didattiche, come quelli proposti da ‘Pegaso-Nuovi percorsi ambientali’ a cura della Provincia di Milano. Ma cosa spinge eroiche insegnanti, inseguite dalla scure dei tagli all’istruzione e sorvegliate a vista in qualità di pubblici dipendenti a rischio di fannullonite a sporcarsi le mani, a gettare ore (non pagate!) in estenuanti riunioni in cui persuadere colleghi e superiori dell’importanza del loro progetto, a lottare con la scarsità di risorse disponibili per l’acquisto di materiali o per la consulenza di esperti, a elemosinare collaborazioni e contributi di ogni sorta, a spendere ore in complesse letture di oscuri testi agronomici? Perché tanta fatica per un semplice pezzo di terra su cui faticare?!
Rousseau lo va urlando da trecento anni. Pestaozzi, Fröbel, Rudolf Steiner, Maria Montessori: i precedenti illustri non mancano. Prima della nostra incompresa insegnante, molti altri suoi colleghi hanno considerato la natura l’ambiente ideale per una crescita armoniosa del bambino, nonché uno degli indispensabili strumenti per la comprensione della realtà che lo circonda.
Nei paesi anglosassoni, la terapia orticulturale ha fatto del giardinaggio una forma di medicina complementare. In una lettura tenuta presso la Scuola Agraria del Parco di Monza nel Febbraio del 2001, sono stati evidenziati alcuni dei risultati raggiunti attraverso la terapia orticulturale nell’ambito scolastico: aumento dell’abilità di autocontrollo, approfondimento del concetto di natura, migliore comprensione del significato dell’attività lavorativa, miglioramento della qualità dello sviluppo mentale dei bambini coinvolti, come pure del loro grado di autonomia e della loro autostima.
Insomma, non manca proprio niente.
Cerchiamo di capire ora, nel microcosmo della scuola italiana, che cosa davvero possono cambiare questi modesti antenati dei medioevali horti conclusi, dove i monaci imparavano a coltivare piante, curare malattie, applicare alla terra le leggi del cielo.
Partiamo dall’aspetto più concreto : il possesso del terreno.
Molto spesso, i piccoli appezzamenti che le classi riescono a ricavarsi per la costruzione dei loro orti, vengono sottratti ad anonimi giardini scolastici, appiccicati all’edificio senza nessun criterio progettuale e riempiti, da pubbliche amministrazioni senza nessuna competenza pedagogica ed in costante deficit economico, di anonime piante che richiedano bassa manutenzione, che non ‘sporchino’ e che non richiamino eccessivamente l’attenzione dei bambini con bacche o frutti che possano essere ingeriti.
Appropriarsi di questi piccoli pezzi di terra significa, dunque, appropriarsi di una possibilità partecipativa all’interno dell’habitat scolastico, dove i bambini (e le insegnanti) trascorrono quasi tutta la loro vita in qualità di usufruttuari passivi e impotenti.
Finalmente il vissuto può influenzare lo spazio di vita, che a sua volta interagisce con emozioni e comportamenti. Gli orti didattici possono essere un’importante occasione di progettazione partecipata, di allargamento della percezione di appartenenza, e quindi di responsabilizzazione, nei confronti di un’istituzione scolastica sempre più a misura dei suoi utenti.
La stessa progettazione degli interventi di realizzazione e mantenimento può richiedere il contributo di diverse categorie sociali : pubblica amministrazione, esercenti locali, associazioni che operano sul territorio, genitori e nonni. Ecco che attorno al piccolo pezzo di terra si crea una rete di relazioni umane, che danno un senso all’idea di ‘comunità’.
Come pure, l’interazione anziano – bambino, sia nella sua forma di contributo fisico alla realizzazione degli orti, sia in quella più didattica di trasmissione di un sapere che altrimenti andrebbe perso, conferiscono al nostro pezzo di terra un’importanza culturale enorme, in cui confluiscono tradizione, storia, folklore e sguardi su un futuro che, per quanto possiamo ignorarlo, ha le sue radici in un passato che ci appartiene.
Gli aspetti relativi alla didattica appaiono quasi scontati : le discipline curriculari che possono far riferimento a questa esperienza sono innumerevoli e suscettibili di continui sviluppi. Fermo restando il fatto che la verifica diretta di qualunque teoria scientifica acquisisce valore aggiunto nella sua pratica: l’osservazione diretta, l’esplorazione, la sperimentazione, la conoscenza sensoriale permettono una modalità di scoperta autonoma e l’acquisizione di importanti concetti cognitivi. Il coinvolgimento nella fase dell’apprendimento di tutte le facoltà, sia fisiche che motorie, non può che contribuire ad uno sviluppo armonico del bambino.
La realizzazione di laboratori e progetti pluridisciplinari che nascano dagli interessi dei bambini, favoriscono nuove modalità di partecipazione attiva alla didattica scolastica, stimolando nuove abilità, consolidando autonomie personali, potenziando le capacità cognitive e agevolando le componenti affettivo – relazionali del gruppo.
La possibilità di vivere, attraverso la semina e la cura delle piante, tempistiche e modalità di sviluppo diverse da quelle acquisite e vissute, permette di sviluppare nuove sensibilità nella percezione del tempo, delle modalità di osservazione, della capacità di immedesimarsi in soggetti altro da sè.
La cura di soggetti viventi, che dipendono dalle mani dei bambini, dalla loro abilità, dalla costanza con cui se ne occupano, aiuta a trasmettere valori importantissimi come il senso di responsabilità.
Il fatto che queste cure siano affidate ad un intero gruppo classe, dalla cui interazione dipende la qualità del risultato, aiuta a sviluppare capacità di cooperazione, di collaborazione, permette di comprendere il significato di concetti come la reciprocità.
L’inserimento degli orti in un ambiente aperto, sul quale interagiscono innumerevoli eventi (metereologici, climatici, urbanistici, umani, animali…) favorisce la comprensione di concetti come l’ecosistema, la biodiversità, l’interconnessione di tutti gli esseri viventi con l’ambiente e l’importanza di un impegno concreto per la sua salvaguardia.
La qualità del risultato raggiunto, infine, oltre a favorire l’autostima, crea un valore aggiunto per tutta la comunità, al di fuori della valenza scolastica, non solo dal punto di vista educativo, ma anche da quello estetico, ricreativo e immaginifico.
Non cambieranno il mondo, questi piccoli orti didattici, ma nella testa di quelli che un giorno si troveranno a prendersene cura, forse, almeno qualche semino, sarà rimasto per germogliare.
Resistete, insegnanti, resistete!
“Una delle prime condizioni di felicità, riconosciuta da tutti come tale, è una vita in cui non sia violato il legame dell’uomo con la natura, ossia una vita a cielo aperto, alla luce del sole all’aria fresca in comunione con la terra, le piante, gli animali. Da sempre gli uomini hanno considerato la privazione di queste cose come una grande disgrazia…”
Lev Nikolaevic Tolstoj, La Felicità, 1884
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