Può impreziosire piatti che necessitano di lunghe cotture; infonde colore e aromi tipici, crea corposità nelle preparazioni in cui viene usato. Si sta parlando del concentrato di pomodoro che in Sicilia viene chiamato “ ‘u strattu”.
Il nome letteralmente significa estratto, deriva quindi dalla parola “estrarre”, ed effettivamente dal pomodoro vengono estratti tutti i sapori, i profumi e i colori che si concentrano in questa delizia dal gusto forte e gradevole. Un tempo non troppo lontano, in Sicilia le famiglie si riunivano per fare la salsa di pomodoro di mattina molto presto, o di notte per evitare la calura estiva.
I pomodori venivano ripuliti dal “Piricuddo” (picciolo) e selezionati e le mani in questa fase diventavano di una colorazione giallo-verdognolo per via dello zolfo presente sui pomodori, che allora era l’unico antiparassitario che si usava. Si raccoglievano i pomodori e si dividevano; quelli più maturi e succosi “beddi fatti”, si usavano per fare la salsa e il concentrato e gli altri si spaccavano in due e si mettevano al sole con un po’ di sale.
Per questi ultimi, il procedimento era il più semplice, una volta essiccati si ponevano dentro le burnìe (barattoli di vetro con il coperchio) con l’olio e la menta o l’origano (a piacere), si ricoprivano di olio e si usavano tutto l’anno come antipasto o come contorno insieme alle olive conzate e alle acciughe.
Una vera delizia gustata col pane caldo cotto nel forno a pietra.
Il sole fin dalla matinata già bolliva i ciriveddi…i fimmini tutti sbrazzati in prendisole e falaru tutto impregnato di pomodoro e ciavurusu di basilico con la mappina in testa per ripararsi dal sole passavano e ripassavano piegate sulle maidde ad arriminare la salsa che cominciava a “strinciri”. Tutte le maidde erano stinnicchiate per il “Chiamo ri l’aria” e i picciriddi giravano attorno cercando il momento di allungare il dito e liccari l’astratto ma se qualcuno dei grandi li acchiappava, ci stampava due boffe n’ta facci e ci la vunciava come un tamburino. Perchè i grandi dovevano lavorare di gran lena!
Ma continuiamo con il racconto. I pomodori venivano lavati accuratamente e scottati in acqua all’interno di un “Quararu”, un grosso pentolone di rame o alluminio posto sulla legna ardente. A questo punto, una parte del pomodoro passato veniva destinato alla produzione di “Bottiglie”, la conserva per l’inverno.
Per fare la salsa da conservare nelle bottiglie e per fare il concentrato si faceva così: dopo aver fatto rapprendere i pomodori, si passavano in un setaccio per dividere la polpa dai semi a dalle bucce. La salsa ottenuta, corposa densa e profumata si divideva in due parti. Una certa quantità, prima si condiva con del basilico fresco quindi si versava nelle bottiglie precedentemente lavate e bollite che una volta chiuse si ribollivano per eliminarne l’aria all’interno. Finito questo procedimento, le conserve “d”a sassa” erano pronte e si riponevano nelle credenze in attesa di essere utilizzate per condimento di pasta o di secondi. Con l’altra parte si procedeva a fare il concentrato.
Per preparare “l’astrattu”, le massaie stendevano le maidde (tavole di legno) al sole dell’astracu (terrazzo) o fuori davanti la porta, le più attente le ricoprivano con un telo di tulle per evitare che gli insetti facessero “festa”, ma c’era anche chi non era molto attenta all’igiene. Ogni tanto si “arriminava” con le mani, e mano mano che si rapprendeva e si asciugava e si riduceva di quantità voleva dire che si “concentrava”:
Le maidde, di giorno erano stese al sole e di sera si ritiravano in casa, per evitare che “l’acquazzina”, cioè l’umidità della notte e la rugiada, facessero andare a male lu strattu.
Quando era perfettamente asciutto e poteva staccarsi dalla maidda senza lasciare sporco, lo strattu veniva conservato in vasi di vetro o di coccio rabboccati con uno strato di olio EVO per evitare ammuffimenti in superficie.
Era un lungo lavoro che durava giorni e giorni e un volta ottenuto l’astrattu si conservava gelosamente perchè era prezioso come l’oro!
Era pronto per arricchire e scaldare nelle fredde giornate d’inverno numerosi piatti, le carni, gli stufati o semplicemente i ragù. Tutto molto bello e suggestivo, certo!
Quello che mi preme di più raccontare, però, è che nella mia Terra, da sempre, non è l’approdo quello che conta ma è il “viaggio”.
E in questo “percorso” delle donne c’era una miriade di sentimenti e di esperienza atavica: la sapienza antica che si tramandava, c’era la pazienza, c’erano le mani che lavoravano e il cuore che le accompagnava, c’era il sole caldo e l’aria pulita, c’erano i profumi, il canto delle ragazze, il vocio delle vicine e i giochi dei fanciulli, c’erano le strade invase di tavole rosse e di allegria.La storia vera di una volta nelle piccole e genuine cose di ogni giorno.
Fonti: Antonella Poma ; Giuseppe Monreale; Cinzia Caminiti Nicotra.
a cura della pagina Facebook U LUPPINARU
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